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Vajont, per non dimenticare

Ha ragione lo scrittore Mauro Corona: le vittime della strage del Vajont non possono essere ricordate soltanto negli anniversari con cifra tonda. Il Vajont deve diventare una data nazionale. Abbiamo memoria corta come italiani, ci devono fissare le date con una legge per obbligarci a ricordare: la giornata della memoria, quella del ricordo, quella delle vittime del terrorismo, la giornata per le vittime della mafia. Il ricordo del Vajont merita una legge e una data. A nome non soltanto di quei morti, ma di tutti i morti dei disastri ambientali in Italia e di quelli causati dall’uomo. Ultime le 43 vittime del crollo del Ponte di Genova.

Il disastro ambientale non è un caso isolato nel nostro Paese, come si è appena visto non appartiene al passato. Lo scrittore di Erto, uno dei centri cancellati dall’ondata del Vajont, sa essere provocatorio, ribelle, ma è sincero sempre. Pochissimi conoscono la valle del Vajont come lui, sa quanto la natura sia stata resa fragile dall’uomo e come spesso reagisca con furia fino alla distruzione.

Corona conserva la memoria non soltanto a nome delle vittime, ma soprattutto per questo Paese distratto. Alla gente del Vajont lo Stato adesso deve dare una risposta che vada oltre la giustizia dei tribunali, più in là dei risarcimenti dovuti, dei monumenti e delle cerimonie. La Repubblica Italiana deve fare entrare il Vajont  nella nostra cultura e nella nostra storia democratica per evitare che possa accadere un altro Vajont.

Soltanto a quarant’anni dalla tragedia un Presidente della Repubblica è ritornato sulla diga: Carlo Azeglio Ciampi ha detto con forza “Mai più un altro Vajont”. Erano le scuse ufficiali dello Stato ripetute dieci anni dopo da Giorgio Napolitano. Certo scuse arrivate in ritardo e a verità non più negabile. Ma era giusto che lo Stato ammettesse che fino a quel momento aveva sbagliato e spiegasse una volta per tutte che le 1910 vittime del Vajont avevano diritto a qualcosa di più del risarcimento e della giustizia, avevano diritto alla memoria. Napolitano ha sottolineato che “Non fu fatalità”: la tragedia poteva essere evitata e la colpa non è da attribuire al destino, ma all’avidità degli uomini, agli interessi talmente grandi da nascondere per decenni responsabilità, colpe e complicità.

Cinquantacinque anni dopo, quei morti hanno finalmente giustizia e quei nomi sopra le tombe del cimitero di Fortogna una risposta che non offende la dignità e la ragione.

Tutto accadde un mercoledì sera, alle 22 e 39 del 9 ottobre 1963. La gente nei bar seguiva una partita di Coppa dei Campioni, Real Madrid-Glasgow Ranger, finita 6-3 per la squadra di Di Stefano e Puskas. All’improvviso la notte venne rotta dal boato più bestiale che si fosse mai sentito. Un fragore come se la terra si fosse spezzata, un’onda che sbatté  contro la faccia interna della più alta diga d’Europa tra quelle a doppia curvatura, presentata come una “creazione umana mirabile e gloria della tecnica italiana”.

Lo sapevano tutti da anni, non c’è stata tragedia più annunciata di quella del Vajont. Lo aveva denunciato la coraggiosa giornalista Tina Merlin: più volte, fino ad essere ingiustamente processata e assolta dall’accusa di aver diffuso notizie atte a turbare l’ordine pubblico. Si preferì rispondere che non diceva la verità, criticarla per le idee politiche sue e del suo giornale, “L’Unità”.

Fu possibile capire l’enormità del dramma soltanto alla luce del giorno dopo, il 10 ottobre 1963. “Il paese di Longarone praticamente non esiste più. E’ stato cancellato. Al suo posto non vi è che un’enorme massa di fango”, riferì la prima notizia delle agenzie di stampa. Dal Piave per giorni continuarono ad emergere centinaia di corpi straziati e denudati dalla furia delle acque. “Non è rimasto nulla. Non nulla per dire poca roba: proprio nulla”, scrisse un giornale. E la Merlin incominciò con queste parole il racconto per il suo giornale: “Vi scrivo dal paese che non c’è più”.

A Longarone c’è un museo, all’ingresso pendono dal soffitto 1910 lamelle grigie, una per ogni vittima. E all’uscita 31 lamelle bianche, una per ogni bambino mai nato. La crosta di fango del Vajont ha sepolto trentuno donne in attesa di un figlio. Anche per loro non si è trattato di fatalità.

 

Edoardo Pittalis

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