Cura e responsabilità
Mai vinto, preso o ricevuto un pesce rosso alle giostre? Un cucciolo al canile? Una piantina al banchetto o al vivaio? E una volta a casa, di chi sono pesci, cuccioli e piantine? E chi lo cura? Se viviamo da soli il problema non si pone; in famiglia, invece, diventano di qualcuno. E non sempre questo qualcuno coincide con l’originale acquirente o destinatario.
L’esempio
Prendiamo ad esempio un cagnolino: magari l’abbiamo preso per noi, o per i figli, o per far compagnia alla nonna. Magari lo abbiamo adottato con l’intento di farne un “membro paritario” della famiglia, ma alla fine il cane (o l’azalea, o il pesce rosso) sarà di qualcuno, di un qualcuno specifico. A quel “qualcuno” il cane farà maggiori feste al rientro a casa e cercherà di accovacciarsi vicino o sopra di lui, nei pressi del divano. Con quel “qualcuno” avrà stabilito un legame del tutto particolare; sarà divenuto suo, attraverso un processo specifico, che ne avrà caratterizzato il legame, ovvero attraverso una relazione di cura.
L’appartenenza
Ciò che curiamo diventa infatti nostro in un modo duraturo e profondo. Pulire un vecchio ripostiglio o una casa nuova, imboccare un bambino o un piccolo merlo caduto dal nido, personalizzare e abbellire un ufficio, ascoltare un amico, difendere un albero dai parassiti, confortare il compagno esausto; tutto è suscettibile di diventare sempre maggiormente nostro attraverso la cura. Ciò che è nostro in questo senso, ci riguarda, ci implica; ci appartiene in un senso diverso dal possesso per conquista o per diritto. Una casa può essere nostra senza essere nostra. Che c’è di diverso nel corsivo? Ha che fare con il bene, con la nostra capacità di identificare, valorizzare, accrescere il bene. Il bene cui siamo attenti, ci accresce, ci espande, ci amplifica attraverso un processo di acquisizione-identificazione. Cose e persone diventano le nostre cose e le nostre persone attraverso il riconoscimento e la cura di questo bene. Ciò che è nostro in tal senso, rappresenta quasi una estensione di noi. Non tutte le relazioni sono però caratterizzate dalla cura.
Sfruttamento e cura
E dove non è cura è sfruttamento o, nel migliore dei casi, scambio. È prendere o, al massimo, dare e avere. Una relazione commerciale non prevede, ad esempio, cura; si dà e si prende secondo convenienza, avendo in vista esclusivamente il proprio vantaggio. Si cede o concede qualcosa di superfluo, sovrabbondante o rigenerabile in cambio di altro che soddisfi un proprio bisogno cui non si sa o può o desidera provvedere da soli. Nulla in questa relazione è dedicato al bene altrui. Nulla è cura. In modo simile, anche tra le conoscenze, nei rapporti tra colleghi, addirittura tra parenti in famiglia o nell’ambito della coppia, è possibile scambiare “cose” per il proprio vantaggio, senza avere alcuna cura gli uni degli altri. Molti partners, ad esempio, chiamano se stessi (forse erroneamente?) Amanti, quando nella loro relazione non avviene che un concordato scambio di “cose”, al quale ciascuno dei due acconsente per l’accrescimento del benessere o piacere proprio. Ciascuno dei due, in sostanza, ha “qualcosa” che l’altro desidera. E lo scambio di questo bene può generare senz’altro una certa soddisfazione.
Lo scambio
Spesso, l’oggetto dello scambio coincide: entrambi sono attratti prima, e soddisfatti poi, dalla bellezza, fisicità, sensualità dell’altro. In altri casi, il bene di scambio può non essere il medesimo. Uno dei due magari è attratto dalla sensualità, l’altro ricerca invece un bene differente; qualcosa che l’altro ha e che a lui manca o che desidera sperimentare. Questo altro bene può avere forme differenti, ma più spesso coincide con la fama, il lusso, il potere, e altri beni più o meno immateriali. Nella sua forma più estrema, questo scambio di beni differenti, può coincidere con l’esplicito scambio denaro/prestazione sessuale, ma di certo sono possibili forme attenuate, graduali, sfumate, nelle quali lo scambio è meno esplicito e meno arido.
I rapporti e la cura
Rapporti più complessi di questo genere, che chiamiamo “rapporti (o unioni) di interesse”, possono avere durata potenzialmente indeterminata, dando forma, in alcuni casi, anche a relazione stabili e matrimoni, pur rimanendo però caratterizzati da un dare-avere perpetuo, senza che la cura sia in alcun modo richiesta o presente. Certo in ogni cura c’è un dare, ma non in ogni dare c’è cura. Il dare della cura è raramente un bene materiale. Esclusi casi di indigenza o malattia o nell’allevamento dei figli, il provvedere in forma materiale al bene altrui non è al fondamento della relazione affettiva. Il dare della cura, al di là delle necessità stringenti o delle piccole attenzioni simboliche, è prevalentemente un dare-di-sé. È dare ascolto, comprensione, sostegno, conforto, incoraggiamento; è dedicare tempo, accoglienza, rispetto, interesse, attenzione, aiuto, disponibilità, accettazione.
Il possedere e la cura
Riguardo al possedere, e tornando a come la cura salvi ogni relazione dal pericolo dello sfruttamento e dalla sterilità dello scambio di interesse, dovremmo forse chiederci in ogni nostra relazione quanta e quale sia la cura che diamo e riceviamo, e quanto sentiamo di appartenere a qualcuno o quanto sentiamo questo qualcuno come nostro. Un nostro amante diventa nostro compagno se e quando, alla radice del legame, trova fondamento l’interesse per il suo bene. In casi differenti, sarà nostro soltanto in quanto “cosa” soddisfacente per i nostri bisogni o perché rappresenta una soglia di accesso ad altri beni o forme di soddisfacimento desiderate. La cura è ciò che trasforma il senso del possesso e della possibilità di utilizzo delle persone in un senso più ampio; trasforma ciò che riteniamo nostro in una estensione di noi stessi. Immaginiamo una mano che tiene una mela. La nostra compagna è nostra come la mano, la nostra amante come la mela.
Rubrica a cura dello psicologo Federico Battaglini