Quale giustizia per la Chiesa?
L’incontro
Padova. «La mia vita è andata in frantumi. Ma il Signore mi ha salvato». La toccante testimonianza di Padre Secondo Bongiovanni, professore di Antropologia filosofica alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, chiude un incontro molto proficuo, rivolto alla formazione professionale di avvocati e giornalisti, che si è svolto lo scorso 24 gennaio nella città del Santo, presso l’Istituto Barbarigo. L’incontro, organizzato dalla Fondazione Lanza insieme alla Chiesa di Padova, è stato significativamente intitolato “Dei delitti e delle pene. Giustizia nella e della Chiesa, questa sconosciuta”. Il convegno ha visto la partecipazione di numerose personalità del mondo Cattolico, dell’Avvocatura e del Giornalismo veneto, riunite per discutere non solo del sistema della Giustizia Canonica – per certi versi davvero antitetica a quella statale – ma anche per riflettere su tematiche fondamentali del giornalismo e del diritto: su tutte, la presunzione d’innocenza e l’importanza di una informazione completa, contro l’accanimento mediatico.
Il Dibattito
«La Chiesa di Padova – afferma infatti Giuliano Zatti, Vicario Generale della Diocesi patavina, salutando il pubblico riunito presso la Biblioteca del Centro studi e ricerca Filippo Franceschi – garantisce da anni la protezione delle vittime di gravi reati di cui si siano macchiati membri del Clero, ma intende fornire tutela anche agli stessi religiosi rispetto alle aggressioni mediatiche che possono trovare grande eco nei giornali».
I procedimenti canonici: un diritto peculiare
Su questo delicato equilibrio, del resto, si fonda l’intero sistema di Giustizia penale canonica, che viene sinteticamente ma dettagliatamente descritto – in un preciso contributo – da Giuseppe Comotti, avvocato e direttore dell’Osservatorio Giuridico della Conferenza Episcopale del Triveneto, nonché professore di Diritto Canonico ed Ecclesiastico all’Università degli Studi di Verona.
«Il sistema della Giustizia penale canonica – evidenzia Comotti – trova la sua fonte nelle norme del Codice di Diritto Canonico, ma è ispirato dai Vangeli. Pertanto, non segue le regole del diritto penale statale e, anzi, può discostarsene in maniera rilevante. Nel diritto penale della Chiesa ogni delitto è, prima ancora, un peccato – afferma: pertanto il rimedio ad esso è in primo luogo la confessione e il pentimento. Se nell’ordinamento italiano vige il principio della certezza della pena e del suo carattere retributivo, così non è nel diritto penale canonico, dove la pena ha funzione essenzialmente medicinale o espiatoria, avendo l’obiettivo di portare il reo al ravvedimento ed essendo non necessaria, ma solo eventuale».
L’esperienza di Padre Secondo Bongiovanni
Un sistema di giustizia davvero peculiare, con il quale ha dovuto – suo malgrado – confrontarsi Padre Secondo Bongiovanni, gesuita che nel corso del convegno ha coraggiosamente esposto la sua esperienza: «la mia prima vita – afferma – si è bruscamente fermata quel 2 agosto del 2008, mentre ero in vacanza a Sondrio, appena uscito da una nuotata in piscina. Vengo circondato da una decina di persone, che inscenano sul posto un processo in piena regola accusandomi di aver molestato un ragazzo. Nel frattempo, senza venirne informato, viene fotocopiato il mio documento di identità, minacciano di chiamare i carabinieri… e io resto traumatizzato, come paralizzato e senza riuscire a parlare. In quel momento mi è caduto il mondo addosso». Pensavo che la cosa fosse finita lì, ma solo nell’aprile del 2016, dopo un’estenuante giudizio, la Cassazione annulla le condanne e rimette la decisione ad un’altra Corte d’Appello, che, il 19 settembre 2016, assolve l’imputato per non aver commesso il fatto.
Lo spettro dell’accusa di pedofilia ha rovinato, in questi anni, l’esistenza di Padre Bongiovanni, che si è visto rimuovere i suoi incarichi di insegnamento: «sono diventato una presenza scomoda – riconosce – ho sperimentato sulla mia pelle cosa significhi sentirsi esclusi, messi al bando, rifiutati. Ricordo bene i titoli a tutta pagina sul gesuita pedofilo. Quando sono stato assolto, invece, nemmeno una riga. Si parla tanto di etica dell’informazione, ma poi la stampa ti considera alla stregua di un oggetto. L’importante è che tu faccia notizia, che faccia vendere. Il resto, a chi importa? Non ci si prende nemmeno la briga di correggere le informazioni sbagliate. Si dice che siamo innocenti fino all’ultimo grado di giudizio. Ma è davvero così?»
La riflessione: “abitare l’etica”
Una considerazione, questa sull’etica della professione del giornalista e sulla necessità di ricordare sempre il principio di innocenza, centrale nell’intervento di Germano Bertin, Presidente di Fondazione Lanza e Caporedattore della rivista “Etica delle professioni”: «siamo ormai entrati nell’epoca della post-verità – afferma: ovvero di per periodo in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nell’informare l’opinione pubblica del ricorso alle emozioni. Ma la post-verità non è altro che una bugia, una menzogna, una non-verità».
Bertin conclude l’incontro considerando che, soprattutto in situazioni come quella descritta da Padre Bongiovanni, è necessario, per il buon giornalista, «abitare l’etica: utilizzarla come metodo per vedere l’altro e la realtà che ci circonda». Ricordando che, sempre, «dopo la firma del nostro articolo, qualcuno pagherà un prezzo».
Pierfrancesco Divolo