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Quando il volontariato è parte di te

Finisce la giornata lavorativa, prendi le tue cose, chiudi l’ufficio, sali in macchina ma non ti dirigi a casa. Ci sono delle sere che non dedichi agli amici, agli affetti o al divano. Varchi la soglia di quell’edificio che è la tua seconda famiglia da anni. Passi il badge, saluti tutti, sali le scale, apri la porta dello spogliatoio e indossi la tua divisa da volontario, quella che in estate ti fa fare la sauna (e pensare che c’è chi paga per farla), e durante l’inverno ti fa mettere le calze da sci, lupetto e pile che l’omino Michelin a confronto è magro.

Metti i tuoi scarponi antinfortunistica, perché devi dare sempre l’esempio, anche se sai ti faranno male i piedi, e scendi in quella stanza che raccoglie tutti quelli che, come te, decidono di dedicare il loro tempo libero agli altri.

Sono le 18.45, iniziano le 12 ore di turno.

Rientra l’ambulanza, fai il passaggio di consegne, compili il libro di bordo, controlli che la macchina sia apposto, e aspetti che suoni il telefono.

Ed eccolo. La nonnina di 85 anni scivola e cade in casa, la badante chiama il 118 che ci da il servizio. Probabile frattura. Si sale in macchina, si avvisa la centrale che si parte, e via.

È solo uno dei tanti servizi che ci aspetta quella notte. Non si può mai sapere che cosa accadrà, cosa aspettarsi. A volte capitano turni semplici. Altri un po’ meno. Certo che lo spirito è diverso quando sai che devi soccorrere un bambino rispetto magari ad uno che abusa dell’ambulanza chiamando alle 3 di notte perché ha mal di schiena da un mese.

Come ci sono servizi che ti toccano e restano impressi negli anni.

La signora alla quale il medico dice “mi dispiace, ma purtroppo non c’è più nulla da fare per suo marito” e ti guarda in lacrime dicendo “sono 60 anni che siamo insieme, io adesso come farò?” e tu sei lì, con il tuo blocco in mano che la osservi e la vedi piccola e indifesa, e pensi che tu al massimo con un uomo esci due volte e la invidi per quell’amore vero, fatto di alti e bassi, di famiglia, di affetti. E non puoi fare altro che dirle “mi dispiace signora” e andartene con una morsa allo stomaco.

Oppure quando arrivi in mezzo alle lamiere, con i pompieri che stanno tagliando la macchina, il medico che cerca di intubare contorcendosi e sai già che qualcuno in quel momento perderà una persona cara. Che sia un genitore o una moglie, delle lacrime di dolore saranno versate.

Ma non è sempre così.

Non portiamo via solo morte, facciamo anche sorridere alla vita. Quante volte succede che i bimbi decidano di nascere in ambulanza? Su quella barella triste hanno fretta di gridare il loro “eccomi sono qui, adesso ci sono anch’io!”

Quando entri nelle case di riposo e l’anziano ti guarda e dice all’infermiera “ecco vedi, ti ho detto che sto morendo, guarda gli angeli sono venuti a prendermi!” E tu sorridi! No non morirai oggi.

E così rientri in sede. Tutti riuniti attorno a quella grande tavola. Se si riesce si cena. A volte è difficile. Altre ci si saluta alle 19 e ci si rivede a mezzanotte.

Ma capita che si riesca a stare insieme, a ridere e scherzare. Fino al prossimo squillo del telefono. E non importa se sarà solo per portare a casa qualcuno dal pronto soccorso, o per accompagnare un’equipe per un espianto in giro per l’Italia, o un bimbo prematuro in una patologia neonatale.

Tu sarai lì. Perché aiutare gli altri ti farà stare bene.

Anche se il giorno dopo andrai a lavoro assonnato. Perché ciò che ti porti dentro, non te lo toglierà nessuno.

Roberta Sarasin

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