Addio Leonard Cohen, maestro della canzone d’autore
Se non ci fosse stato lui, difficilmente Fabrizio De André sarebbe diventato tanto grande. E forse Nick Cave avrebbe fatto il maestro elementare in qualche città australiana invece di raccontarci in musica il lato oscuro della vita. Se non ci fosse stato Leonard Cohen a forgiare storie delicate e al contempo dure, dicotomie esistenziali su tessuti sonori, la nostra vita sarebbe stata più povera. Lo sarà di sicuro, ora che il cantautore canadese, secondo probabilmente solo all’amico Dylan nell’abilità di scriver canzoni, se ne è andato. A 82 anni, quasi all’improvviso, se solo un mese fa presentava il suo ultimo disco «You want it darker», il quattordicesimo di una carriera lunga ormai cinque decenni e tre o quattro Americhe. Presagiva la fine nell’ultima intervista al Corriere («sono pronto»), ma in realtà sembrava voler esorcizzare la morte: «a volte ci si lascia andare a un eccesso di drammatico- aveva detto- Ho intenzione di vivere per sempre».
Leonard Norman Cohen era nato il 21 settembre 1934 a Westmount, nel Quebec. Aveva imparato a suonare la chitarra da ragazzo e aveva formato un gruppo folk, i Buckskin Boys. Presto ispirato da Federico Garcia Lorca si era rivolto alla poesia. Dopo la laurea alla McGill University, si era trasferito nell’isola greca di Hydra dove aveva pubblicato le sue prime raccolte di poesie Flowers for Hitler nel 1964 e i racconti The Favourite Game nel 1963 e Beautiful Losers nel 1966. Frustrato dalle scarse vendite e poi dal lavoro in una fabbrica di vestiti a Montreal, visitò New York nel 1966 e si immerse nell’ambiente del folk-rock della città. Conobbe la cantante folk Judy Collins, che in quello stesso anno inserì due canzoni di Cohen nel suo album ”In my life”. Una delle due era il primo celeberrimo successo di Cohen “Suzanne”.
Un disco denso di riferimenti religiosi, l’ultimo, per lui nato in una famiglia ebraica, ma mai veramente praticante, anche se aveva ammirato il buddismo, e perfino, brevemente, flirtato con Scientology. Già, la ricerca dell’io, più che i grandi affreschi politici e sociali, avevano sempre affascinato Cohen. Nei dischi, a partire dai primi capolavori, l’immortale «Suzanne», «Hallelujah», le pietre miliari «Songs of Leonard Cohen» o «Songs of Love and Hate» fino all’ultimo album , ma anche nei romanzi e nelle poesie, davvero autore universale e poliedrico, fine intellettuale prestato alle arene, amato anche dal cinema, vedi Altman o Moretti. Un «poeta minore» amava definirsi, un gigante della parola cantata lo ricorderemo noi.
G.N.P.