100 anni di Porto Marghera
Il dopoguerra è denso di tensioni: disoccupazione, conflitti sociali, anche uno sciopero generale che nel giugno 1945 porta 20 mila operai in piazza San Marco e 50 mila un mese dopo. Si lavora sotto organico. Marghera assorbe quasi 14 mila occupati tra Breda, Vetrococke, Azotati, Sava, Ilva, Montecatini. Rappresenta una percentuale enorme in una provincia che ha 37 mila disoccupati.
Dopo l’attentato a Togliatti, 14 luglio 1948, lo sciopero generale a Marghera e Venezia è totale. Ma si rompe l’unità sindacale e le lotte incominciano ad assumere carattere difensivo. Nel 1950 a Porto Marghera 75 aziende danno lavoro a 20 mila occupati. A inizio anno la Breda minaccia il licenziamento di centinaia di operai e impiegati, lo sciopero è immediato. La Polizia di Scelba spara ad altezza d’uomo contro gli operai che distribuiscono volantini nel viale che porta al Ponte che intanto ha cambiato nome: non più del Littorio ma della Libertà . Tre operai restano feriti in maniera grave. La vertenza si conclude col licenziamento di mille tra operai e impiegati.
Poi arriva il miracolo economico, i salari salgono del 50%, la produttività dell’80, la produzione industriale del 200% rispetto al 1938.
Si gettano le basi per fare di Porto Marghera una delle più grandi concentrazioni operaie d’Europa. Quando nel 1961 viene completata la prima zona industriale, si raggiunge la cifra ufficiale di 30.000 “occupati”.
Il boom di Marghera trascina Mestre che passa da 54 mila a 110 mila abitanti in meno di dieci anni. Altri 60 mila s’insediano nei paesi attorno che crescono a dismisura: Spinea, Marcon, Mirano. Il fenomeno diventerà ancora più evidente dopo l’Acqua Granda del 1966, l’alluvione che quasi piega Venezia e la svuota. Mestre si avvia a diventare in breve la città più popolosa del Veneto, superando i 200 mila abitanti.
Marghera continua a crescere. Siamo alla “seconda zona industriale”, più ampia, più estesa, verso sud, grazie anche a una legge che permette di scavare nuovi canali e con la terra ricavata creare altri spazi per depositi e stabilimenti. Entra in vigore il Piano Regolatore Generale del Comune di Venezia che resterà in vigore fino al 1990. Le indicazioni sono precise: “Nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose e che producono vibrazioni e rumori”.
Si tolgono alla laguna altri mille ettari del suo spazio naturale, un’area più grande della zona urbana di Mestre e dintorni. Si arriva in pochi anni a una “terza zona industriale” (legge marzo 1965) che coinvolge anche il Comune di Mira: altri 4000 ettari da ricavare dalla laguna sempre in direzione sud. E nuovo canale, il “Canale dei petroli” adatto al transito delle grandi petroliere, profondo 15 metri: usando come ingresso in laguna le bocche di Malamocco, raggiunge dopo 18 chilometri la terraferma.
E’ adesso che Porto Marghera diventa il Petrolchimico. A spingere è la creazione della Montedison, nata dalla fusione della Montecatini e della Edison, il nuovo colosso del petrolio e che gestisce l’80% della chimica italiana. La Montedison dirotta sulla petrolchimica le ingenti risorse finanziarie ricevute con la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Sembra che tutta coincida per far diventare ancora più grande Porto Marghera: raffinerie, lavorazione, flotta, petroliere. A favorire tutto la straordinaria espansione della chimica e il successo mondiale dell’invenzione del Moplen, che nel 1963 frutta il Nobel al chimico italiano Giulio Natta. E’ una rivoluzione, partendo dal propilene si realizzano prodotti resistenti, economici, di larghissimo uso: dai secchi allo scolapasta, ai tubi di scarico. Oggetti di ogni genere, pronti per il consumo di massa.
A fine Anni Sessanta Porto Marghera raggiunge il culmine del suo sviluppo: con 35 mila dipendenti, e altrettanti nell’indotto, è il più grande polo chimico italiano, la più affollata concentrazione operaia d’Europa. Ha una classe operaia che non ha paragoni per numeri e caratteristiche.
Ed è qui che il Sessantotto, la protesta, l’autunno caldo assumono l’aspetto di una contestazione globale che investe il mondo del lavoro, della scuola, dell’università e le grandi manifestazioni culturali veneziane, dalla Biennale alla Mostra del Cinema.
Il primo segnale arriva il 7 marzo 1968 con lo sciopero generale per la riforma delle Pensioni, poi si sciopera contro le “gabbie salariali”. A Porto Marghera il grande sciopero dura dal 15 luglio al 2 agosto del ’68, investe la Montedison. Gli operai il primo agosto occupano la strada per il porto, poi la stazione di Mestre, poi il Cavalcavia. Isolano Venezia per ore
Porto Marghera diventa il centro dell’autunno sindacale con scioperi consecutivi: blocchi stradali, manifesti, cortei, blocchi stradali. La strategia dei sindacati che guidano la classe operaia non raramente va in frantumi sotto l’urto di formazioni nuove, di comitati di base. Quando operai e studenti assedieranno a Mestre la sede della Cgil, in piazza Ferretto, sarà necessario l’intervento massiccio della Polizia per liberare sindacalisti e dipendenti della Camera del Lavoro.
Nell’ottobre 1969 gli stabilimenti petrolchimici e tutte le altre fabbriche di Marghera si fermano per due settimane nel più grande e lungo sciopero mai visto nel Veneto.
Dopo l’attentato di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, 17 morti, bombe portate dal Veneto, sono venuti gli anni dell’esplosione del terrorismo, “gli anni di piombo”. Il Veneto, con le sue fabbriche e le sue università, è terreno fertile per terroristi di ogni sigla. Attentati, esplosioni, vittime, arresti. Poi l’attenzione delle Brigate Rosse per Mestre e per Porto Marghera. Le br si sono ritirate al nordest dopo una serie di arresti e di pentiti che hanno smantellato la rete originaria e mostrato troppe protezioni.
Mestre diventa il covo della loro follia, hanno già sequestrato per una notte un dirigente della Montedison, l’ingegner Luciano Strizzolo, si sono infiltrati nelle fabbriche. E’ proprio a Mestre che le Br fanno quello che nel loro linguaggio chiamano il “salto di qualità”. E’ la mattina del 29 gennaio 1980, fredda, sotto una pioggia ininterrotta: il dottor Sergio Gori, vicedirettore tecnico della Montedison, viene ucciso sotto casa in centro città.
Che le fabbriche di Porto Marghera siano una polveriera estremamente pericolosa lo si capisce dalla rivendicazione delle Br fatta trovare in una cabina telefonica nell’arteria cittadina più trafficata, Corso del Popolo. Non è un caso che arrivi il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, deve parlare nella sala mensa perché la direzione dello stabilimento nega l’uso di un capannone. L’anziano Presidente grida con coraggio “Costi quel che costi” in faccia a un’assemblea nella quale non pochi simpatizzano per le Br o comunque ne hanno paura.
A metà maggio nella stessa popolosa zona di Mestre, sempre di mattina, le Br ammazzano il funzionario della Digos Aldredo Albanese che sta indagando sul delitto Gori e forse si è avvicinato troppo alla verità.
L’obiettivo è il Petrolchimico. Il 20 maggio 1981 i brigatisti tavestiti da finanzieri entrano nell’abitazione dell’ingegner Giuseppe Taliercio, proprio in centro, a un passo da Corso del Popolo. Prendono in ostaggio la famiglia, aspettano il rientro dell’ingegnere e lo portano via. La prigionia dura 47 giorni. Lo uccidono e ne fanno trovare il corpo nel bagaglio di un’auto che lasciano l’auto sotto il muro di cinta del Petrolchimico.
Il Veneto degli Anni Ottanta ha superato il Piemonte, è la seconda regione industriale.
Edoardo Pittalis